All’indomani dell’entrata in vigore – il 1 gennaio 2018 – dell’obbligo di usare i soli sacchetti biodegradabili a pagamento, per pesare e prezzare le merci sfuse, si sono scatenate discussioni e polemiche, riconducibili soprattutto alla mancanza di informazioni sul provvedimento. Il tanto contestato obbligo è stato introdotto dal decreto Mezzogiorno, convertito nella legge n. 123/2017 che, all’art. 9 bis, ha recepito la direttiva 2015/720. Tale direttiva, adottata al fine di prevenire o ridurre l’impatto degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio sull’ambiente, ha modificato la precedente direttiva 94/62/CE ed ha imposto misure per diminuire in modo significativo l’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero.

I singoli Stati membri avrebbero dovuto recepire la direttiva entro il 27 novembre 2016 ma l’Italia, nonostante un lungo e complicato dibattito parlamentare, non lo ha fatto nel termine, incorrendo in una procedura di infrazione (“Procedura di infrazione 2017-0127 Mancato recepimento della direttiva 2015/0720/UE che modifica la direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero”) che poi è stata chiusa.

L’obiettivo della direttiva poteva essere perseguito in vari modi: facendo ricorso a strumenti economici (fissazione del prezzo, imposte e prelievi) o istituendo restrizioni della vendita, purché proporzionate e non discriminatorie o restrittive della libera circolazione delle merci.

La scelta del nostro legislatore è stata quella di esplicitare il costo del singolo sacchetto, ma ciò che pochi sanno è che, in realtà, i sacchetti di plastica utilizzati al supermercato non erano gratuiti neanche prima! Infatti, fino al 31 dicembre 2017, i sacchetti si pagavano, ma il loro costo era pagato dai distributori che poi lo ricaricavano sul prezzo finale degli alimenti. Si trattava, dunque, di un costo occulto che il legislatore ha voluto rendere esplicito, nel tentativo di disincentivarne l’abuso. Dare un valore visibile ai bio shoppers significa, infatti, generare una maggiore consapevolezza nel consumatore.

La legge, tuttavia, non ha fissato alcun prezzo, né indicato un costo minimo, prevedendo soltanto il divieto della cessione gratuita e l’obbligo di indicare il prezzo sullo scontrino o sulla fattura. Dopo l’entrata in vigore del provvedimento, le persone in rete si sono sbizzarrite con soluzioni fantasiose per boicottare l’iniziativa, con l’illusione di non pagare i sacchetti e si sono addirittura visti ingenui esperimenti di etichette applicate direttamente su frutta e verdura, fotografata come un trofeo da esibire. Pochi hanno capito che il costo del sacchetto viene addebitato su ogni etichetta e che quindi l’idea di prezzare ogni singola arancia o banana non solo non consente di risparmiare il costo del sacchetto ma, al contrario, porta a pagarlo più volte, senza peraltro averlo utilizzato!

Inoltre, i consumatori non potranno aggirare il nuovo obbligo di pagare le bustine trasparenti dei supermercati, perché per ragioni igieniche sarà vietato portare da casa i sacchetti da utilizzare all’interno del supermercato per imbustare frutta, verdura ed altri alimenti sfusi.

Uno sguardo Oltralpe ci dice che alternative esistono: la Svizzera ha introdotto le cd. multi-bag, sacchetti a retina, riutilizzabili e lavabili in lavatrice a 30°C, su cui si possono attaccare e staccare le etichette con il prezzo dei prodotti acquistati. In realtà non manca chi sottolinea una profonda contraddizione in qualsivoglia soluzione adottata: che senso ha utilizzare buste riciclabili quando non v’è obbligo poi di applicare etichette compostabili? Possibile – si insinua – che la lotta all’inquinamento sia solo un pretesto?

Fatto sta che la plastica è tra i maggiori responsabili dell’inquinamento di suolo, mare e corsi d’acqua ed è dovere di ogni cittadino adottare comportamenti maggiormente rispettosi dell’ambiente e portare avanti l’epocale lotta contro la plastica tradizionale.